STEELY DAN

SAPESSI COM’E’ STRANO

(VEDERE DONALD FAGEN A MILANO)

C’era una ragione precisa per la quale non avevo mai visto un concerto degli Steely Dan: non erano mai stati a Milano. Non sono un globetrotter della musica: nel corso degli anni, quelli che mi piacevano li ho aspettati pazientemente a Milano e li ho visti in concerto quasi tutti, più o meno. Ho visto addirittura Stevie Wonder in un posto che non esiste più, il palasport che crollò sotto la neve qualche mese più tardi. Qualche falla resta ancora, per carità. Ma per quella degli Steely Dan ero abbastanza pessimista: Donald Fagen e Walter Becker hanno 61 e 59 anni, si dividono e poi si rimettono insieme a cadenza ventennale, fanno dischi quando gli pare, e sono quel tipico prodotto di nicchia musicale per il quale i produttori non credo perdano il sonno la notte. Se vengono, bene. Se non vengono (non erano mai venuti), pace.

Il concerto degli Steely Dan del 9 luglio a Milano è stato perfetto come la maratona di Settoreh del 26 aprile a Padova. Tutto perfetto, tutto tutto tutto. Già da prima. Arrivo in orario, trovo parcheggio, l’Arena è una sciccheria, ero in settima fila (60 euri spesi molto bene), faceva bel frescolino e c’erano poche zanzare, quasi niente (o magari ce n’erano, chissà, ma ero cosparso di Autan e avrei tenuto lontani anche facoceri, armadilli e – genericamente – belle fighe). Ma la cosa più bella era il pubblico. Un pubblico adeguato agli Steely Dan, cioè un pubblico anziano e di nicchia. Un pubblico mediamente brizzolato, serafico, sereno, ordinato ma appassionato. Un pubblico dolcemente datato, fisiologicamente fighetto, agée, con la pancetta. Un festival di pancette. E di magliette della salute. Qualcuno arrivava in cravatta. Qualcun altro in camicia con il maglioncino sulle spalle. Uno spettacolo.

Poi, voglio dire, un pubblico di un certo livello. A parte Settore, Doug e la Netta versione japanese (faceva molte foto con diversi supporti tecnici che estraeva dalla borsa, tipo Eta Beta, insieme all’Autan contro la zanzara-tigre e a una patente probabilmente falsa), tre file dietro c’era Fabio Concato. E due file davanti l’uomo che non ti aspetti: Red Canzian. Ecco, una volta nella vita devi provare anche questa esperienza: trovarti faccia a faccia con un Pooh. Red Canzian è il più giovane dei Pooh e – ho controllato su Wikipedia – con i suoi 58 anni sarebbe anche il più giovane degli Steely Dan. Ma mentre i due ‘mericani portano sul palco la loro età, Canzian è un Pooh, una creatura a parte, meno estremo di Michael Jackson ma più paraculo di Little Tony. Lo guardavo – capelli tinta catrame ed espressione misto botox – mentre cercava il posto e avevo l’impressione che gli si stesse per svitare qualcosa. Chessò, un braccio.

Poi finalmente è iniziato il concerto. Temevo che l’impatto-live degli Steely Dan mi potesse deludere, tanto inclini al perfezionismo sono i dischi in studio, arrangiati all’inverosimile e scritti in maniera così ricercata che per intuire la melodia, certe volte, i pezzi devi riascoltarli e poi ancora. Ma la realtà ha superato l’immaginazione: band fantastica, zero sbavature, intesa perfetta, impatto devastante sul mio povero cuoricino sballottato tra pezzi recenti e capolavori del passato. E strepitosi loro, i due vecchietti. Magici. Fagen arriva sul palco tutto storto ed emana un magnetismo assoluto. Becker sembra un turista americano capitato lì per caso, uno di quelli che ti immagini in coda al Cenacolo in attesa di entrare mentre la moglie lo cazzia perchè si è macchiato la camicia con il gelato, ma è un cesellatore della chitarra e poi canta anche un pezzo con il suo vocione Old America che sarei salito sul palco a baciarlo su una guancia, per poi dirigermi verso Fagen e prostrarmi ai suoi piedi e, con deferenza, ringraziarlo di esistere.

Quando parte “Hey nineteen” inizio a cantare, perchè la so tutta a memoria. Dopo mezza strofa, mentre sono in piena estasi tipo quando nella mezza maratona ti accorgi che verso il 15mo chilometri  riesci ad allungare senza mettere a repentaglio il sistema cardiovascolare, mi sento toccare a una spalla. Il tizio dietro mi fa:

“Scusa, ma come si intitolava il pezzo, quello di prima, che lui ha iniziato con il piano e poi gli altri dietro, non so se mi sono spiegato, sai quel pezzo famoso ma non mi ricordo il nome, cioè capo, non so sei hai capito il mio problema”

Al che io gli ho risposto

“Home at last, l’album è Aja, vecchio mio”

ma avrei voluto rispondergli

“Ma vaffanculo pirla, sono qui che canto Hey nineteen e tu mi rompi il cazzo, ti avrebbe fatto piacere se mentre Grosso tirava l’ultimo rigore ai Mondiali io ti avessi fatto pat-pat sulla spalla e ti avessi chiesto: scusa, chi è quello con la faccia da scemo che ha tirato prima, credo che giochi nel Milan ma non sono sicuro, capo, tu ti ricordi il nome, eh capo?”

Comunque, nel clima di letizia e coesione, ho liquidato in fretta quello scoppiato e ho concluso la mia esibizione canora intonando insieme alle tre negrone del coro

The cuervo gold
The fine columbian
Make tonight a wonderful thing

perchè in effetti tonight era davvero una wonderful thing. Doug aspettava “Peg” e naturalmente Donald gliela fa. Al termine di “Peg”, quando ormai monta il casino, la gente è piedi a ballare e parte un’ovazione diretta a quei santuomini sul palco, Doug in piena trance agonistica lancia slogan al limite dell’omosessualità verso gli Steely Dan e poi inizia a insultare Red Canzian e io lo blocco prima che gli salti addosso e gli scolorisca la chioma a colpi di Autan.

Dopo due ore precise, il finale di concerto più strano che abbia mai visto. Donald e Walter salutano, le coriste pure. Gli altri rimangono sul palco e fanno una versione jazzata di “L’ultimo tango a Parigi” da paura. Breve, per fortuna, perchè stavo per chiedere a Doug di ballare un lento e Netta ci avrebbe sputtanati su Facebook. E comunque: viva la musica di qualità, viva gli Steely Dan, viva l’Inter, abbasso Nedved, Juve merda. E mi dispiace per chi non c’era.

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