PODISMO & SOFFERENZA

IL RITORNO DI MARIANO SETTORINI

“Non posso correre con il raffreddore, abbi pazienza”, mi dice la mia spina calcaneare. E io: “Non rompere i coglioni, ti ho preso il pettorale”. Al che si inseriscono nella discussione le maniglie dell’amore: “Lasciateci dormire, non ci va di ballonzolare per 21 chilometri e 97 metri”. E io: “Basta, basta! Il corpo è mio e lo gestisco io!”

A quel punto suona la sveglia e mi alzo. Colazione in pieno relax, vestizione lentissima tipo figa che non sa cosa mettersi e vuole arrivare tardi per farsi notare. Vabbe’ che abito vicino, ma la nonscialàns con cui salgo in macchina alle 9,10 (la partenza è alle 9,30) mi spaventa. Poco dopo trovo un parcheggio di puro culo, esco e mi trovo già nel podismo che si riscalda.

Dopo 5 mesi dall’ultima gara, dopo 7 mesi dall’ultima gara lunga (la 30 km di Piacenza), dopo 12 mesi dall’ultima mezza il podista voghero-friulano Mariano Settorini (quello che parte ultimo e arriva penultimo) si rimette scarpe, maglietta dell’Avis e pettorale e scende nell’agone. Problemi risolti zero (la spina c’è e duole insieme a noi, la maniglie dell’amore ci sono e prosperano intorno a noi, la forma fa ca-ga-re), ma la voglia è tanta. E così, tossicchiando e starnutendo e valutando ogni tre passi il dolore al tallone sinistro, ecco Settorini che prende posto in coda al gruppo e parte. Pum!

Non riesco a crederci, mi dico dopo 500 metri, sono ancora qui che corro, wow! Parto piano, mi intruppo tra i contemplativi, mi godo una corsetta senza patemi, non ho manco il fiatone. Beh, certo: vado a 5′ 15″. Poco prima del terzo chilometro supero un centoduenne e capisco che sono partito very slow. Sul ponte coperto mi supera uno con il cane al guinzaglio e lì capisco che il ritorno dopo una lunga inattività è ricco di umiliazioni. Inseguo l’uomo e il cane e li supero verso il quinto, quando poi incontro l’amico Mark Cheese e parlo con lui di Inter-Roma prima che a entrambi venga il magone. Allungo (o è Cheese che accorcia? Questo non lo so), assumo una postura meno goffa, il piede non fa troppo male, il raffreddore non mi dà troppo fastidio, e insomma vado. Passo ai 10mila in un tempo che mi fa sospirare e meditare il ritiro (non da questa corsa: il ritiro definitivo), ma poi mi dico: che cazzo me ne frega? Supero anche momenti strazianti, tipo quando vedo Perdenzio lontanissimo, dall’altra parte del naviglio: vile, ti approfitti di me e delle mie condizioni precarie. Tra il decimo e il quindicesimo comunque mi do un certo tono e comincio a sognare cose inadeguate, tipo riprendere Perdenzio e restare sotto l’ora e cinquanta. Dal sedicesimo in poi faccio calcoli complicati e capisco che non ce la farò mai.

E quindi mi rilasso e mi gusto la mia mezza maratona zen, senza assilli, senza obiettivi, senza guardare il Garmin, senza guardare Runtastic (tra i due alla fine di saranno 900 metri di differenza, e la colpa è quasi tutta di Runtastic: se lo conosci lo eviti). Sulla dirittura d’arrivo comincia a piovere, è un segno del destino. Sprinto, supero alcuni ruderi e chiudo in 1h 52′ 12″, 738mo su 951 lontano dai miei tempi migliori, vicino ai miei limiti attuali. Sereno. E soddisfatto per essere ancora vivo e avere stabilito un buon rapporto con la mia spina calcaneare, basato su questa affermazione: “Mi hai rotto il cazzo, brutta troia, ma dobbiamo coesistere e quindi ti voglio bene in quanto parte di me”. Insieme per forza, tipo Jack Lemmon e Walter Matthau. O Letta e Alfano. O Balotelli ed El Shaarawi. Sarà dura, ma ce la faremo.

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