PIETRO MENNEA

IL BRACCIALETTO DI CUOIO

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Ci sono delle immagini – delle fotografie – che ti restano dentro, impresse per la vita. E questa foto, l’arrivo dei 200 metri alle Olimpiadi di Monaco del 1972, è una di quelle. Sono stato a Monaco in vacanza una trentina d’anni dopo e mi sono fondato allo stadio Olimpico per celebrare intimamente due delle più belle imprese atletiche e sportive del mio pantheon personale: i 200 metri di Mennea e i 100 metri di Nicolino Berti. Ma i 200 metri di Mennea ce li ho dentro da quasi 41 anni ed è un ricordo a cui sono affezionato, molto. E chissà poi perchè, un terzo posto, un bronzo, una foto a colori ritagliata da un rotocalco, attaccata al muro e gelosamente custodita (per anni, ora chissà dove sarà finita), Mennea dietro Borzov e Black, primo degli umani, primo dei normali, primo dei puri. Ma questo, a otto anni, non arrivavo a pensarlo. Mi piaceva solo il gesto di Mennea, il suo essere italiano, la sua faccia strana. Mi piaceva fare il tifo per lui, leggere i suoi tempi sul giornale. Mi piaceva il suo braccialetto di cuoio. Me ne fabbricai uno, lo mettevo quando con i miei amici facevamo le gare per strada scimmiottando Mennea e quelli come lui. Corse su asfalto, con le scarpe che capitavano, vestiti normalmente. Corse meravigliose, che mi mancano un sacco. Corse che duravano 5 secondi, 10, 20. O un paio di minuti, quando si faceva il giro dell’isolato e allora la smettevo di scimmiottare Mennea e scimmiottavo Fiasconaro. E poi rivincite, e altre rivincite. Di sera. In notturna, le chiamavamo noi. Un’ultima occhiata all’angolo (niente macchine? ok) e via, il centomillesimo sprint con i jeans e magari le college, neanche le scarpe da tennis. D’estate. Quando non c’era calcio, e se c’era lo trasmettevano verso le undici di sera, la Coppa Italia, a volte solo il risultato, a volte immagini buie in stadi improbabili. Meglio farsi due sprint.

Mennea avrebbe fatto quattro finali olimpiche di fila nei 200 metri, vincendone una (senza americani, partendo da schifo, rimontando prodigiosamente in dirittura). Mennea avrebbe fatto il record del mondo (in altura, a Città del Messico, senza dirette, con immagini un po’ così, l’impresa della vita testimoniata male, accidenti ai messicani) che sarebbe durato 17 anni, una roba alla Beamon. Mennea avrebbe vinto medaglie su medaglie, titoli su titoli. Ma per me il meglio di Mennea rimane quel meraviglioso terzo posto a Monaco a 20 anni appena compiuti, che mi ha insegnato che non è necessario arrivare per forza primi, e che certe volte arrivare terzi è fantastico se hai 20 anni e davanti a te arrivano solo quelli più forti. E il meglio di Mennea è anche quel 19’96” a Barletta, che fu – chiamiamolo così – record a livello del mare, e che per lui barlettano era un po’ come le nostre corse sotto casa, solo che lui fece un tempo mostruoso – una tra le tante cose mostruose che fece con quel telaio così normale, che lui issò a livello dei grandi e dei neri grazie a due coglioni poderosi e a un’attitudine alla fatica senza paragoni. Piango Mennea come piangerei un grande dell’Inter, perchè è stato un mio idolo e lo è sempre rimasto, anche dietro quella scorza un po’ antipatica, quella specie di snobismo dell’introverso. Non mi interessava sentirlo parlare, del resto, se non di atletica, di allenamenti, di gare e di quel rapporto sado-maso con il professor Vittori. E’ stato uno dei più grandi atleti che l’Italia abbia mai avuto, o forse il più grande, chissà. Mi levo in piedi e lo applaudo, come quando urlavo per 20 secondi davanti alla tv e poi uscivo in strada e mi sfinivo a gare di eliminazione con Sergio, Marco, Massimo, Davide e tutti quelli che amavano sprintare con i jeans e tornare a casa sudati da strizzare. Felici come ragazzini che avevano appena corso a perdifiato per un tot di volte, appunto.

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