QUI IN ABRUZZO

LA DIFFERENZA

“Robbe’, me la fai tu la tabella?”

Faccio io. La contabilità delle scosse fa abbastanza impressione: da quella disastrosa della notte tra domenica e lunedì ce ne sono state una settantina superiori alla magnitudo 2, la soglia di percepibilità. Io ne ho sentita distintamente – molto distintamente – una, alle tre dell’altra notte, la prima che ho passato a Pescara. Mi ero addormentato sì e no da dieci minuti e quello è stato il benvenuto nelle notti d’Abruzzo. Avrei saputo la mattina dopo che era una scossa da 5,1 della scala Richter, una bella botta. La mia camera d’albergo è al primo piano, quindi sono tra i fortunati che hanno ballato poco. Ai piani superiori sentivo porte aprirsi e chiudersi, tapparelle alzarsi, pianerottoli popolarsi. Io manco mi sono alzato dal letto. Sono rimasto a guardare il soffitto come Pepe Carvalho e poi, appena i battiti sono tornati regolari, ho spento la luce e mi sono rimesso a dormire, placidamente consapevole di essere in zona sismica.

La differenza l’ho capita il giorno dopo, e anche ieri, e anche oggi. Io sono uno che domenica tornerà verso casa. Chi mi sta intorno è gente che invece resta qui, vive qui, lavora qui, invecchierà qui. E Pescara oggi è una fetta privilegiata dell’Abruzzo: è sulla costa, adagiata sulla sabbia, sente le scosse ma non ne subisce la violenza che a cento chilometri di distanza ha distrutto tutto. Resterà forse di questo terremoto qualche piccola crepa negli intonaci, roba da imbianchini. Ma sono le altre crepe, quelle interiori, a fare la differenza. Io me lo posso permettere: mi spavento e mi giro nel letto. Loro no, la tensione se la portano appresso. E’ sempre un telefonare a casa, un accertare continuo. Senti la scossa e ti alzi, scappi, fosse anche solo per aprire una porta e vedere il cielo. Nei momenti peggiori c’è gente che si alza se sente una finestra sbattere. E’ una differenza che mi turba.

La differenza. Tipo la mattina, che mi alzo e vado a correre un’oretta (andata sul lungomare, ritorno sulla spiaggia, una figata). E anche se attorno vedo cose normali – gente che fa la spesa, beve il caffè, sorride, scende il cane, si bacia sul muretto balneare, cerca di travolgere i pedoni sulle strisce (non si ferma nessuno, per fortuna mi hanno avvertito) – so che la normalità è effimera e relativa. Per me è più normale che per altri, che si mettono la giacca e prendono la borsa se senti la scossa e decidi di uscire purchessia.

E comunque è una normalità pesante, malata. C’è compassione, nel senso più letterale del termine. L’Abruzzo è una regione più omogenea di altre, con meno campanili. Oggi comunque non ne ha. Soffrono tutti insieme, per la stessa cosa, anche lontani dall’epicentro. “Non si parla d’altro” è una frase abusata. Di solito è una forzatura: si parla d’altro, sempre. Bisogna esserci nel posto in cui davvero, per un motivo o nell’altro, non si parla d’altro. Per capire. Tipo qui, oggi. Senti solo “terremoto”, una parola unica che si infila in qualsiasi discorso. Bar e ristoranti hanno sempre la tv sintonizzata sul terremoto. La gente stessa è sintonizzata sul terremoto, sempre. Per sentirlo, soprattutto, e non farsi cogliere impreparati dalla terra che trema.

Ieri ero alla cassa del supermercato con due cose (dentificio e pastiglioni Enervit). Dietro di me c’era una signora anziana che, con furtiva discrezione, cercava di passarmi davanti nonostante avesse molta più roba di me e io avessi già messo le mie due cose sul nastro in attesa del mio turno. La cassiera – io non mi ero nemmeno accorto della cosa – l’ha cazziata: “Vabbe’ che c’è il terremoto”, le ha detto alzando la voce ad arte, con un sorriso ironico. Sorrideva anche la signora. Poi ho capito che aveva fretta davvero, perchè eravamo in un posto senza finestre, seminterrato. Chiuso. E in un luogo chiuso, in questi giorni, ti vengono sempre strani pensieri.

Anche il giornale è terremotato. La redazione è al sesto piano e, dopo due giorni di scosse, di cui una spaventosa (quella di martedì alle sette di sera), hanno deciso che c’era un limite a tutto. La loro redazione dell’Aquila non c’è più, è inagibile e chissà quando ci rimetteranno piedi. Il caposervizio ha perso il padre e i due figli, 18 e 16 anni, una cosa indicibile, che ha squassato tutti. E’ un’altra differenza. Loro che sentono le scosse e io no, oppure meno. E lo capisco.

In qualche ora, mercoledì, ci hanno spostati dalla redazione alla rotativa, a qualche chilometro da centro, che non ha nessun pregio se non quello – straordinario, you know – di trovarsi al piano terra. Per quelle rare e particolari condizioni in cui si gioca di squadra e tutti danno il massimo, i tecnici hanno fatto il loro miracolo – spostare la redazione – e i giornalisti e i poligrafici il loro: scrivere e fare uscire il giornale stipati in uno stanzone in cui ieri eravamo venticinque o trenta, non so, non ho contato, tutti appiccicati, tipo call center (o forse loro stanno più larghi?).

Però è una bella esperienza di vita e di professione. Bellissima. Commovente. Quelle cose che ti capitano ogni tanto, quasi mai. Si trova il tempo per tutto, anche sorridere (“Minchia, sembriamo uno di quei laboratori pieni di cinesi”), mangiarsi un panino, uscire se c’è una scossa (chi la sente). Si moltiplica l’impegno, si dà il meglio, sperando che l’adrenalina non finisca di botto. C’è da remare di brutto, ma con una missione. Una missione precisa, importante, e lo dico senza la minima retorica perchè in queste condizioni non la fa nessuno, non ce n’è il tempo. La retorica la fanno quelli che girano col microfoco fra le tende a fare domande del cazzo. Qui no, si suda e basta, con un obiettivo nobile. Si chiude che è mezzanotte passata, in piena bagarre, quando vola qualche moccolo e due minuti dopo ci si abbraccia. All’una si va in rotativa e si aspetta il giornale. Che è uno spettacolo industriale se ce n’è uno. Bisognerebbe portarci i bambini, altro che Gardaland.

Poi a nanna, belli cotti. Io dormo poco, metto la sveglia e alle nove esco a correre. E’ una differenza di cui quasi mi vergogno un po’. Ma intorno c’è gente che fa la spesa, piscia il cane, gioca a palla, beve un crodino e io, rassicurato, alzo l’Mp3. Quando passo davanti agli alberghi degli sfollati mi si altera il battito, ma la corsa non c’entra.

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