BOSTON

QUATTRO ORE E ZERO NOVE

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Boston non so manco dove sia eppure mi sembra di esserci stato. Quel momento lì – l’arrivo di una maratona – l’ho vissuto 12 volte e negli ultimi 50 metri potresti essere a New York, Boston o Buccinasco senza coglierne granchè la differenza. Almeno per me è così. Quando taglio il traguardo dopo 42 chilometri e 195 fottuti metri non faccio nulla di epico nè mi vengono in mente cose epiche, come sento o leggo raccontare da qualche podista col gusto dell’impresa. Neanche mi godo granchè il momento, perchè arrivo in riserva di tutto, ho nausea da integratori, dolori da glicogeno esaurito, coglioni pieni da corsa prolungata e non vedo l’ora di passare sotto il gommone e sentire l’ultimo cip-cip del chip quando varco la linea. Non so neanche se definirlo, questo, il momento più bello della maratona. Di sicuro è il più atteso, perchè segni un’altra tacca e – soprattutto – puoi smettere di correre, finalmente. Negli ultimi cinque metri tiro un bel sospiro, chiudo gli occhi, stoppo il Garmin. Poi qualcuno mi mette al collo una medaglia. Ecco, la medaglia mi piace. Piego il collo e me la infilano. Bravo, complimenti, e io ringrazio. Guardo la medaglia, guardo il tempo. Mi compiaccio di essere vivo, vegeto, lucido, anche se le gambe sembrano due ceppi di legno. Sogno una bella doccia. La doccia dopo la maratona. Val la pena correre una maratona per godersi la doccia dopo la maratona.

Nei video della bomba che esplode, solo chi ha corso almeno una maratona può capire alcuni particolari apparentemente insensati. Sul lato della strada opposto a quello delle bombe, la corsa scorre ancora per qualche secondo. C’erano atleti a pochi metri dal traguardo che – con una bomba che gli esplode a dieci metri – finiscono la gara. Di default. Un uomo e una donna alzano timidamente le mani, sopraffatti dallo spavento ma per esultare come probabilmente per settimane avevano sognato di fare. Una ragazza con un cappellino bianco si gira spaventata, ma nel farlo stoppa il cronometro. Non è gente invasata. Sono podisti da 4 ore e rotti. Ma a dieci metri dal traguardo di una maratona forse neanche una bomba ti potrebbe impedire di tagliare il traguardo, segnare una tacca, guardare il Garmin, piegare il collo mentre davanti a te c’è qualcuno che allarga il nastro e ti dice good job.

Quattro ore e 9 minuti. A Tokyo ho finito in 4h 10′. A Reggio Emilia in 4h 08′. Per due volte avrei potuto essere là, esserci io. A Reggio Emilia, 2007, mia seconda maratona, per un colpo di freddo ho rischiato di svenire prima della partenza. Bianco come uno straccio, sono stato in uno spogliatoio fino a due minuti prima dello start. Poi mi sono detto: vabbe’, proviamo. A ogni rifornimento un tè caldo. Ogni 5 km stavo un po’ meglio. Non so come, l’ho finita. Non sono un invasato. Ma la maratona la prepari per settimane, mesi. La maratona è una festa. Hai voluto esserci, la vuoi fare, la vuoi finire.

L’arrivo, poi, è una festa, una festa vera, intima o collettiva non importa. Se proprio non la si può correre, almeno una volta bisognerebbe vederla una maratona. Mettersi ai bordi della strada e guardarla passare. Applaudire ‘sti poveri pazzi. L’arrivo è uno spettacolo di sport, fatica, passione, sudore, vesciche, amore, acido lattico e ancora passione. L’arrivo è una festa. Mettere bombe a una festa è una cosa infame. Non c’è un posto migliore o peggiore di un altro per mettere una bomba. Ma un luogo di festa è il più indifeso.

Ci sono due, tre o quattro morti, non si capisce. Saranno forse di più, chi lo sa. Uno dei morti è un bambino di otto anni. Un bambino che a dieci metri dall’arrivo forse era lì solo a vedere la maratona, oppure ad aspettare un amico, un parente. Il papà. Mettere la bomba dove ci sono dei bambini è la merda assoluta.

Nel 2009 la Milano-Pavia di 33 km viene allungata a 42,195. Una maratona che arriva a Pavia è un’occasione imperdibile. La preparo, mi alleno, ci sono, mi iscrivo, ci provo. Lo striscione è a 300 metri da casa. Catechizzo le mie figlie: allora, arriverò più o meno a quest’ora, mi raccomando, venite. Corro con questo pensiero: arrivo a Pavia, sotto casa, le bimbe sono là, bello. Giornata autunnale, umidissima, ogni tanto pioviggina, freddina ma non rigida, perfetta. L’arrivo è in discesa, Strada Nuova. Mi lascio andare. Guardo il Garmin e sorrido: faccio il personale. Ultimi 100 metri, ultimi 50. Mi guardo attorno, non le vedo. Taglio il traguardo, Garmin, personale, 3 ore e 41 (farò meglio una volta sola), medaglia. Passa un minuto, forse due. Ora le vedo. Prima avevo guardato proprio lì, ma non c’erano. Sono a cinque metri dal traguardo e stanno guardando gli arrivi. Le chiamo. Si girano stupite. “Da dove sei passato?” “Da dove volete che sia passato?” “Ma quando?” “Due minuti fa” “Ops, siamo entrate un attimo in quel negozio lì”. Beata innocenza.

Una bomba alla maratona. Una bomba tra la gente, tra i parenti, tra i bambini. Una bomba in una festa. Bastardi.