MILANO CITY MARATHON

 

DE COUBERTIN SAREBBE FIERO DI ME

(SOLO LUI)
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La principale ragione per cui ho corso la maratona di Milano è, appunto, che era a Milano. Non avevo lo stress del viaggio. Per il resto, perchè l’ho corsa, essendo quasi sicuro in partenza che sarebbe andata male e che forse non l’avrei manco finita? Ecco, la seconda ragione sta in quel “quasi”. E poi? Terza ragione: perché volevo la medaglia, che non era una medaglia qualunque ma era la decima. Quarta ragione: perché correre una maratona è sempre una gran cosa, anche se non stai bene. Quinta ragione: perchè a quel punto potevo giocare con l’asticella delle difficoltà. Ho corso maratone al freddo e sotto la pioggia (Tokyo, Firenze, Reggio Emilia), senza chiudere occhio la notte prima (Tokyio, Roma, Firenze), sfiorando lo svenimento mezz’ora prima del via (Reggio Emilia), a sei/otto ore di fuso non riassorbito (New York, Tokyo): perchè non correre dopo due settimane di virus para-influenzale e con ancora un po’ raffreddore e un po’ tosse e con un caldo da mese di giugno (Milano 2011)?

Così è stata la mia maratona più zen: ero serenamente rassegnato a ogni evenienza, compresa quella di rinunciare a partire e riprendere il metrò (ammesso di ritrovarlo tra i padiglioni della fiera di Rho). E invece sono partito, non dopo avere abbracciato il londinese Valerio e congedando lo scalpitante Maurizio 1 con cui l’ho preparata (inutilmente, cazzo) per tutto l’inverno, e mi sono fatto i miei primi 10 km a passo da primato personale, restando sotto i 5 al km. Al km 9, come previsto, c’è M. che mi dà un cinque. All’11mo estraggo dal mio marsupio di sopravvivenza (fazzoletti, gel enervit, soldi per il taxi) il telefonino e chiamo D., my brother in marathon, che mi attende al 19mo, per rassicurarlo che sono vivo e in tabella. Al 18mo però mi accorgo che sto calando, e quando con D. passo alla mezza mi rendo conto che la situescion mi sta sfuggendo di mano e sono appena sopra l’1h 47′, cioè due minuti e mezzo in più rispetto al passo da personal best. Lì capisco che non è cosa, e avverto il mio scudiero che la scimmia si sta appoggiando sopra la mia spalla destra. Al 20mo passiamo all’Arena, potrei ritirarmi lì e andare bello paciarotto a ritirare i miei effetti personali, ma non lo faccio.

Al 24mo c’è Maurizio 2, il mio coach virtuale, che vedendomi arrivare comincia a farmi il culo. Non so da cosa l’abbia capito, ma per incoraggiarmi mi dice che sto facendo una corsa insensata vai vai vai che corsa assurda vai vai vai. Certa gente è troppo avanti. Al 26mo c’è il passaggio cruciale in piazza Duomo. D. mi abbandona, taglia il percorso e mi dà appuntamento al 36mo. Io potrei ritirarmi lì, prendere quella bella strada dritta che arriva al castello e andare bello paciarotto a ritirare i miei effetti personale, ma non lo faccio.

Al 27mo, a 15 fottuti km dall’arrivo, sento le gambe diventare di uno strano materiale: un po’ roccia lavica, un po’ palline dell’Ikea, un po’ uranio impoverito, un po’ frappè alla banana. E prendo una decisione zen:

“Settoreh, da qui in poi metodo Galloway”.

Cioè mi metto a camminare per un minuto, durante il quale le mie gambine riprendono conformazione flesh & blood, e a correre per cinque. Riacquisto vigore e fiducia, ma il metodo Galloway puro dura giusto una ventina di minuti. Poi comincio a camminare er un minuto e correre quattro, poi tre, poi due, poi uno. Cammino un minuto e corro un minuto. Quando mi accorgo di essere approdato al metodo Galloway “special edition Daniela Santanchè” vengo preso da oscuri presagi. Basta, mi fermo. Ma non so dove sono. Quindi proseguo.

Arrivo non so come al ristoro del 35mo, dove c’è Paolo Green Pea che cerca inutilmente di incoraggiarmi. Sono talmente zen che prendo mezzo arancio, mezza banana, due bicchieri di integratori e poi mi infilo in un wc chimico con una tale flemma che se avessi avuto la Gazza mi sarei letto tutte le pagelle di Inter-Chievo.

Mi squilla il cellulare. “Figa, sei vivo?” “Sì, un attimo, arrivo”. Al 36mo D. mi riprende in consegna ma gli dico subito che da lì in poi si sarebbe seguito il metodo Galloway “special edition Giuliano Ferrara”: 30 secondi di corsa e tre minuti di cammino. Mentre con D. passeggiamo che sembriamo Ibra e Piquè, da dietro arriva uno che fa:

“Ciao Settore, forza Milan”.

Gli prendo il numero di targa: si chiama Tommaso ma lì per lì non lo riconosco. Troverò ore dopo un suo messaggio su Facebook in cui mi spiega che è milanista e che mi ha superato perchè stava facendo la staffetta, mica la maratona intera come ammè. Al 37mo incontro Marco che mi dà una bottiglietta d’acqua, mi dice che non è partito perchè gli è venuto la squaqquerone di notte e che ha visto svenire dieci persone, di cui tre top runner. Al 38mo pensavo di essere al 39mo e mi viene una botta di tristezza. Poi finalmente vedo e tocco il 40mo vero in corso Sempione, dove mangio un vassoio di frutta, poi raggiungo il 41mo che passo baldanzoso come Thiago Motta al rientro da uno stiramento e poi il 42mo. Sprinto, corro gli ultimi 195 metri, passo il traguardo, mi faccio infilare la medaglia, vado a cambiarmi. Ho fatto cagare ma sono contento. Mentre mangio una pizza con  C., D. e Maurizio 1 sto già architettando viaggi al Nord Est in cerca di maratone meno crudeli. Finchè parti e finchè arrivi, hai la certezza di essere vivo.