CORRIPAVIA

SAPESSI COM’E’ STRANO

(SE SOTTO CASA SI CORRE

PER IL TITOLO ITALIANO)

La figata della Corripavia è che mi sveglio sereno, faccio le cose con grande calma (specie quel rito di spalmare il miele sulle fette biscottate) e vado alla partenza a piedi in totale relax, anche se so che sto per farne 21 raschiando il barile delle energie e delle motivazioni. Poi quando approdo in zona corsa, tra il brulicare dei podisti – uno piccolo spettacolo di varia umanità e sanità di principi – faccio pubbliche relazioni (oggi c’era un accrocchio molto speciale di amicizie anche antiche e sentimenti virilmente podistici), mi scaldo un pochino e attendo lo sparo, pum!, e parto per 21,097 km. tra strade e scenari che conosco a memoria e mi rassicurano (nel senso che se mi dovessi mai ritirare, torno a casa a piedi o chiedo un passaggio a un volto amico). Ma oggi la Corripavia era prova unica di campionato italiano master di mezza maratona, e invece del solito migliaio scarso di podisti ce n’erano tremila e si respirava il casino delle grandi occasioni.

Facendo due conti, mi sentivo in grado di fare un bella corsa. Ma Pavia sorge in riva al fiume Ticino, la città digrada e il podista si incazza. Non c’è tregua fra strade strette, tratti tortuosi, salitine e discesine, e la Corripavia infatti viene considerata una mezza maratona piuttosto difficile, non “da tempo”: io infatti qui il tempo non l’avevo mai fatto e una ragione ci sarà anche stata. Però mi sentivo di provarci, e che cazzo. Non ricompongo il trio newyorchese con Doug e G., che abbraccio davanti al castello e che programmano una corsa un po’ più di calma. Ma, come un session man, ne compongo un altro con Friz (che conosco da quando avevamo i pantaloni corti) e Gerrard (suo cognato), che vogliono fare la stessa cosa che voglio fare io:

scendere sotto l’ora e quaranta.

Un’ora e 40  fanno cento minuti, e scendere sotto i cento minuti è uno degli step più significativi nella mezza maratona per quelli della mia ex-categoria:

le pippe dignitose.

Scendendo sotto i cento minuti si passa infatti da pippe dignitose a podisti generici. Io, in 17 mezze, ce l’ho fatta solo una volta, a Gaggiano (sapessi com’è strano). E’ ora di rifarlo, dico prima a me stesso, poi a mie due soci e poi a una signora non più mestruata che mi passa accanto. E così, ambiziosi e cazzuti, ci dirigiamo alla partenza. Quando mancano cinque minuti allo sparo, succede un fatto a suo modo inquietante, che potrebbe equivalere a un fosco presagio non solo sulla corsa in se stessa, ma sull’intero destino del gruppone dei tremila (anzi, dei 4.500, perchè dietro c’erano anche i non competitivi):

il gommone ondeggia e sembra sgonfiarsi.

Io e Doug chiamiamo confidenzialmente “gommone”  l’arco gonfiabile che identifica partenza e arrivo. Il gommone si ammoscia, inizia a piegarsi. Wow. C’è sconcerto. Molti si toccano i coglioni. A quel punto un cowboy dell’organizzazione, per evitare guai peggiori (centinaia di podisti morti travolti da un gommone, sai che pubblicità di merda per la Corripavia), prende una decisione autoritaria ma necessaria: con tre minuti d’anticipo pum!, spara, e si parte sotto il gommone barzotto.

Al rifornimento del quinto chilometro, in piena bagarre, accade il secondo fatto potenzialmente malefico e intinto di forte simbolismo: un ragioniere di Busto Arsizio, assetato, mi dà una gomitata accidentale sul Garmin. Circa un chilometro più avanti mi accorgerò che quel cazzo di gomitino adunco aveva pigiato il tasto del cronometro e me e lo aveva fermato.

E qui va detto: un podista senza cronometro (o con il tempo deformato) è come una rosa senza spine, o come Donald Fagen senza Walter Becker. Dopo il gommone il Garmin. Sono colpi durissimi alle certezze e alla concentrazione. E’ una corsa micidiale. Ma procedo indomito.

Passaggio ai 10 km.: praticamente perfetto.

Passaggio all’ora di corsa: quasi perfetto (12,8 km. invece dei 13 km. che speravo)

Passaggio ai 15 km: ci siamo.

Al 19mo chilometro comincio a cedere. Prima mi appare Jose Mourinho legato a un palo e trafitto da frecce come San Sebastiano, poi mi metto a seguire con la coda dell’occhio uno che sembra Friz, ma poi lo guardo meglio e mi dico:

“Ma vaffanculo! Siete tutti vestiti uguali”.

Lui mi guarda come se avesse visto Sgarbi vestito da podista. Friz, quello vero, era dieci-quindici metri più avanti in coda a Gerrard, e io li stavo perdendo. Arranco fino al cartello del 20mo chilometro – loro sempre venti metri avanti – dove appare Maurizio I, il mio saggio coach virtuale, che ha chiuso in un tempo per me irreale ed è venuto indietro a tirarmi per gli ultimi mille metri.

“Dai, dai, dai! Come va?”

“Aargh!” (bene, volevo dire)

In realtà non capivo più bene dov’ero e dove andavo, e avevo come voglia di vomitare e ritirarmi dall’attività per sempre. Ma lui continua a tirarmi, incitarmi eccetera, finchè si fa da parte e mi appare il gommone, rimesso in discreta turgidità. Passo il traguardo con le ginocchia rasoterra ma apparentemente vivo. Maurizio mi dice bravo, Friz e Gerrard mi abbracciano.

1h 39′ 26″, my personal best. Viva il podismo, viva la libertà, viva lo sport, viva l’Inter. L’endorfina e la voglia di vomitare mi impediscono di chiudere il mio mantra con i soliti vaffanculo, non ho fiato e poi mi sento in pace con il mondo. Doug e G. chiuderanno in 1h 45′, come il Sango che era alla sua prima corsa in assoluto (mej cojoni). Poi abbraccio Maurizio II, mio sodale dei lungoni invernali azzoppato dal menisco, che agita la stampella come Enrico Toti per farmi i complimenti accecando una massaia di Borgarello. Poi Akel mi presenta uno che ha corso 700 maratone. Mi inchino. E c’è uno che mi fa “ciao Settore”. Ciao Settore? Il podismo è una cosa meravigliosa.

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