PODISMO SOFFERTO

IL CAPITANO PENULTIMO

Il mio attuale podismo rispecchia sinistramente il momento dell’Inter. Sono lacero e demotivato. Dopo la lombalgia acuta che mi ha negato una maratona di Roma preparata con i controcazzi *

* non è proprio così, obvioulsy, ma l’avrei fatta in grande serenità

la ripresa dell’attività è stata – ed è ancora – contrassegnata da una lunga serie di guai. Il mese di stop mi ha fatto tornare indietro di sei mesi di preparazione, la spina silente adesso duole di brutto, i bronchi sono intasati, la gamba è acida e lattica, il passo è pesante, il peso è sovrappeso, l’umore al ribasso tendenza baratro. In due parole:

faccio cagare.

La qual cosa in sè non mi destabilizzerebbe (non è che quando non-faccio-cagare combini chissà che), senonchè coincide con il momento di maggior intensità del calendario. C’è una corsa dopo l’altra. E quindi:

faccio cagare di frequente.

Ora, volendo tirarmela un po’, potrei dire: “Ci sono troppe gare, non riesco ad allenarmi come si deve”. Ma debbo essere onesto intellettualmente e ribadire, al contrario, che per me le gare sono il miglior allenamento. Quindi non ho scuse:

faccio cagare e basta.

Dopo la lombalgia – un mese di stop totale e un timido ritorno agli allenamenti, con feeling azzerato e fisico rattrappito – ho disputato ben 5 gare in 20 giorni.

Prima gara. 12 km. Vado così così, senza infamia e senza lode, con il solo obiettivo di arrivare in fondo con la schiena incolume. A un certo punto, al bivio del km. 6, un vecchietto di guardia al percorso dice: “Di là”. Tutti vanno di là. Ma non bisognava andare di là. Alcuni se ne accorgono quando finiscono in un bosco, in uno scenario tipo Platoon, e coperti di sanguisughe si rendono conto che qualcosa non va. Tre quarti degli atleti sono stati ingannati dal vecchietto, di cui non si hanno più notizie certe dopo l’accaduto. Risultato: gara annullata. Resto nel dubbio: chissà quanto avrò fatto cagare.

Seconda gara. Mi reco speranzoso nella mia città natale per una gara di 9,5 km. A metà del viaggio di trasferimento mi accorgo di avere dimenticato a casa il Garmin. Dico parolacce per alcuni km, poi mi quieto, rassegnato. Mi schiero alla partenza senza Garmin e mi sento come se fossi senza mutande, senza pantaloncini, senza pantaloni della tuta e senza foglia di fico. Sono della scuola “Non so stare senza Garmin”. Partiamo e, non avendo il Garmin, non capisco un cazzo di quello che sto facendo. Tiro un po’ troppo e vado in affanno. Tutto questo potrebbe avere un senso a un km dalla fine. In realtà era passato un km dall’inizio. Rallento, pant pant, e mi superano tutti, cani e porci. Mi supera tranquillo anche un tipo che batto sempre, che poi si distrae, sbaglia strada, mi ri-raggiunge e mi ri-supera una seconda volta. Cerco un chiodo a cui appendere le scarpe, ma non lo trovo. Resto 10 metri dietro al mio amico fino alla fine: potevo sprintare e superarlo ma non lo meritavo. Dopo il traguardo lo fermo: “Scusa, non avevo il crono. Che tempo abbiamo fatto?”. “Quarantasei”. “Quarantasei e?” “Quarantasei, più o meno”. Mi mostra il suo cronometro: sul display ci sono solo ore e minuti. Gli ho voluto bene. Controllo la classifica generale. Quintultimo. Rumore di tuoni.

Terza gara. Cerco di far tesoro della lezione della gara prima. Parto tranquillo, ma così tranquillo che veleggio nelle retrovie da subito e ci resterò fino alla fine. Non ho ricordi di questa gara, se non la puzza di merda vicino a un campo appena concimato. Sono pervaso da un senso di tranquillità innaturale. Infatti, non controlando questa tranquillità, finisco per deprimermi una cifra. Uno dello staff mi urla: “Vai vai! Mancano millecinquecento metri!”. Cazzo, così tanto? Arrivo sestultimo in classifica generale. Ho voglia di piangere, ma mi bevo un bel tè servitomi da una signora non più mestruata da almeno sette lustri.

Quarta gara. Mi reco in una località vicina a Pavia e famosa in ambiente ciellino per le reliquie di un beato. Infatti il paese pullula di reliquie, villette a schiera, villette non a schiera e grandi parcheggi per pullman e pellegrini. La corsa si snoda tutta in ambiente urbano, tra villette non a schiera e villette a schiera che a un certo punto non distinguo più. Mi ritrovo da solo, nessuno davanti, nessuno dietro, villette intorno, e cerco le frecce per terra con angoscia: “E se mi perdo? E se sbaglio percorso? E se arrivo ultimo?”. Ho un attimo di panico. Poi di orgoglio podistico. Raggiungo e supero uno nel finale di gara, mi sento gasato come Salvatore Antibo ma poi mi accorgo che non aveva neanche il pettorale. Finisco settimultimo, in leggero progresso rispetto alle due gare precedenti. Medito propositi di ritiro dalle gare e dal mondo, cerco soluzioni su un catalogo per eremiti eterosessuali.

Quinta gara (ieri). Mi reco in Oltrepo pavese, terra celebre per le colline. La gara è collinare e consta di colline da percorrere salendo o scendendo a seconda del momento. Si parte, dopo due metri e mezzo comincia una salita spaccapalle, poi c’è un falsopiano che ti consente di riprendere fiato mentre gli altri già ti staccano, poi c’è una salita pesantemente spaccacoglioni, poi un falsopiano in discesa, poi una discesa vera, poi non mi ricordo più perchè questa gara la odio e ci torno tutti gli anni e passo la gara a chiedermi il perchè. Non è il mio pane. Praticamente sarebbe come chiedere ad Alvarez di fare i 100 metri piani contro Bolt e Asafa Powell. Io vado piano in salita e rallento in discesa, per cui non ho speranze di sfangarla in una gara che prevede solo salite e discese. Parto in coda al gruppo tipo Mariano Settorini, mi sento molto a mio agio nel gregge ma alla seconda salita mi tocca camminare piegato in due come un escursionista tedesco over 80. Si prendono giuoco di me anche atleti molto anziani, donne, bambini, alcuni animali e alcuni passanti del posto, di cui uno claudicante. Finisco ottavultimo, lieto solo di essere sopravvissuto.

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PODISMO SOFFERTOultima modifica: 2013-05-06T19:20:00+02:00da admin
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