VITA DA NON-ATLETA

IL POLPO PAULINO

Ieri sera, sabato, poco prima delle ore 24 stavo complimentandomi con la cuoca per la tenerezza di un polpo al vino rosso, che celebravo in maniera barbara finendo a canna una weizen dei fratacchioni bavaresi. Mentre vivevo con nonscialàns questo bel momento di vita e di gastronomia, mi sfuggiva lo sguardo sul mio orologio da polso. E non ero tanto colpito dal fatto che fosse mezzanotte, quanto dalla data. Il 28 cominciava a dare spazio al 29. Cosa dovevo fare il 29? Già, cazzo: cosa dovevo fare il 29?

Al che, in un attimo di lucidità, mi veniva in mente che avevo una corsa. Oggi, domenica 29, alle ore 9. Minchia, dicevo tra me e me mentre pensavo a quanti tentacoli avevo mangiato e a quanta birra avevo bevuto. Considerando che la notte precedente – quella del mesto ritorno dal Principato di Monaco – avevo dormito tipo quattro o cinque ore, e che l’immediata vigilia (nove ore prima!) la stavo vivendo mangiando polpo e bevendo birra trappista, mi stavo già immaginando come sarebbe stata la mia corsa: una cosa vergognosa e ridicola, al termine della quale mi avrebbero tolto la licenza podistica e mi avrebbero squalificato per sei mesi per condotta lasciva.

Dopo sei ore scarse di sonno la sveglia suonava impietosa, e alcuni minuti più tardi mi avviavo al malinconico appuntamento con il mio socio podista. Nelle vie deserte della città venivo assalito dai più foschi presagi: mi ritirerò dopo trecento metri, o sverrò come Dorando – ma dopo solo un paio di chilometri – o morirò come Enrico Toti tirando il Garmin contro il nemico. Per fortuna la trasferta era breve (la gara era in un paese a sei o sette chilometri da Pavia) e, arrivato al tavolo delle iscrizioni, cercavo di convincermi che mi sentivo bene.

In realtà, durante il riscaldamento mi accorgevo di avere due plinti di cemento al posto delle gambe, e un pallone geostazionario al posto dello stomaco, e una zavorra da mongolfiera al posto della pancia. Mi trascinavo per il paesino dove alcuni autoctoni mi scambiavano per Michael Jackson durante il suo proverbiale moonwalk, però in avanti.

Comunque ormai ero lì, mi ero iscritto e vaffanculo. Vado alla partenza, pum!, e parto. Nei primi 500 metri sembravo un uomo alle prese per la prima volta nella vita con la pratica della corsa. Ma il fatto di essere sopravvissuto al primo mezzo chilometro mi dava fiducia. E quindi superavo Ponte, e poi Mottisoli, e poi Bon Jovi, e poi Banati (che parte sempre piano) e poi addirittura Princi. Dopo un chilometro e mezzo tutti i miei tradizionali competitor (categoria podisti decorosi) erano tutti dietro tranne uno, Possanzini.

Quindi mi metto alla caccia di Possanzini. Lo marco stretto per un po’, poi lui allunga e decido di lasciarlo sfogare. Nel frattempo Banati fa la sua solita remuntada, ma io nel lasciarlo sfilare supero in maniera del tutto inaspettata Cristoforo (che di solito mi batte) e poi anche Puntuti e Aziz, che mi battono sempre ma si vede che sono appena tornati dalle vacanze. Tutto questo si svolge a metà gruppo. Quelli forti non li vediamo neanche più, but who cares? Ormai il fatto sportivo della giornata è tutto qui, nella sfida tra Possanzini e Settoreh.

E’ verso il quinto chilometri che il polpo, che per simpatia chiamerò Paulino, comincia a fare capolino e vuole uscire dal mio stomaco. Ma che cazzo, dico io, sei morto, ti ho mangiato, non mi rompere i coglioni. Eppure sento che si agita, questa merda di Paulino. E Possanzini allunga. Continua a girarsi per vedere dove sono. E probabilmente gode, perché io perdo metro su metro. Polpo del cazzo. E in un momento di particolare difficoltà mi appare questa scena: vedo Paulino sguazzare nell’acquario del mio stomaco intorno alle fototessere mia e di Possanzini, e poi abbracciare quest’ultima. E vedo centinaia di giornali, tv e siti internet dare la notizia:

“Settoreh è fottuto, vince Possanzini. L’ha detto Paulino”.

Verso il settimo chilometro torno in me e comincio piano piano a rimontare, ma ogni volta che mi vede a tiro Possanzini allunga. Gli arrivo anche a cinque-sei metri, ma lui scatta. All’ultimo chilometro vengo raggiunto da due tipi mai visti. Mi lascio superare e mi aggancio al treno. Il mio piano è subdolo e fantastico: mi nascondo, stringo i denti, raggiungo Possanzini e lo inculo. E infatti mi avvicino, mi avvicino, mi avvicino… ma lui a un certo punto si gira, mi vede e allunga. Basta, rinuncio: mancano trecento metri e lo lascio andare. Possanzini mi fotte cinque punti, ma io taglio il traguardo tra gli applausi della folla*. Mi fiondo al tavolo del tè e me lo trangugio sentendomi inaspettatamente vivo.

La morale della gara di oggi è: la vita d’atleta è una mistificazione dei produttori di pasta integrale, e se volete mangiare un chilo di polpo e bere un litro di birra nove ore prima della gara, beh, si può. 

*non è vero. Mi ha applaudito solo un anziano compagno di squadra, così, per simpatia.

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