LA MIA MARATONA

DAI RETTA A ROBODOU

Dopo la sveglia alle 5 meno qualcosa, una colazione veloce in un postaccio gestito da un cinese, tre quarti d’ora di pullman che ti regalano l’emozione dell’alba con skyline, un quarto d’ora a piedi seguendo genericamente la fiumana dei pettorali blu, e due ore e mezza (dicasi: due ore e mezza) imbacuccato come un homeless per ripararti dal freddo e dal vento, sdraiato sull’asfalto in favore di sole cercando ogni singolo grado che potesse riscaldarti, cosa vuoi che sia una maratona? Trascorse le due ore e mezza nette di lotta per la sopravvivenza e contro la noia, comincio la vestizione e mi accorgo di tutto il mondo che c’è intorno, compreso di un tizio che fuma, forse nervoso per l’attesa, mentre mi chiedo che fine avrà fatto un altro tizio sulla settantina, con una panza così, sceso dal pullman in canottiera e pantaloncini. Del ponte di Verrazano vedo giusto la cima, e lì sotto siamo in quarantamila ad aspettare di entrare nelle gabbie e incamminarci lenti verso un posto che conosco a memoria pur non essendoci mai stato. Si sentono i colpi di cannone delle partenze precedenti, poi ci si schiera dietro i caselli del ponte, e vista così sembrerebbe la maratona di Melegnano.

Ma è New York.

E quando parte la nostra ondata, la seconda, quella dei nè top nè pipp, ci mettono “New York Ney York” e “Born to run” a palla, un’americanata che però, proprio in quel preciso istante, aveva un suo perchè. I ponti sono in salita, Poi c’è la discesa, certo, ma la salita è tosta, quasi ripida. La maratona comincia arrampicando, ma ormai sono sul ponte e me ne strafotto. Otto mesi di attesa, di attenzione a ogni scricchiolio, al minimo dolorino. Troppo tempo. Mi godo il ponte e non mi pare vero, anche se il bello deve ancora arrivare. Scendiamo a Brooklyn e c’è già un pacco di gente ai bordi delle strade, di tutte le razze e di tutte le età. Mi vedono e mi fanno:

“Let’s go Roberto”

che in ispanico è così, Robberrrrrrto, ma in americano è un suono indescrivibile, una specie di Robodou che mi terrà compagnia fino alla fine. Sembra che mi conoscano tutti, Vamos Robbberrrrrrrrrrrrrrrto, let’s go Robodou, che popolarità, che festa, che roba. Tutto effetto del nome scritto sulla maglia. Avevo letto, mi avevano raccontato. Ma mai avrei immaginato una cosa del genere. Sembrava che tutta New York mi conoscesse. Mi metto tutto sulla destra e saluto tutti quelli che mi salutano, cioè decine e decine di persone, Robbberrrrrrrrrto, Robodou, a uno do il cinque, all’altro un cenno con la mano, all’altro ancora un ciao. La prima volta che guardo il cronometro avevo già corso tre quarti d’ora, e manco me ne ero accorto impegnato com’ero nelle pubbliche relazioni. La cosa è commovente e divertente al tempo stesso, e a un certo punto comincio a pensare seriamente al mio futuro:

mi trasferisco a New York, entro nel ramo “mi chiamo Robodou, io corro e voi mi date il cinque” e vado avanti così.

Il record del trasporto emotivo lo batte una che sembrava Dee Dee Bridgewater con la metà degli anni e il doppio del peso: “Robodou, I love you”. “Me too”, le faccio io allungando il passo per evitare complicazioni. Ogni tanto mi prendo delle pause in mezzo al gruppo perchè mi frigge un po’ la mano, troppi cinque dati a mani protese, e finchè sono bambini va tutto bene, ma poi arrivano ragazzoni vestiti da rapper, scaricatori di porto, cantanti di gospel. S-ciaff!, delle botte che non vi dico. Sul Queensborough Bridge mi accorgo che i segnali dell’allenamento imperfetto cominciano a farsi sentire. Entro a Manhattan ed è altra adrenalina, ma al chilometro 28 stop, mi fermo, al primo crampo maledetto che mi prende alla coscia sinistra, appena sopra il ginocchio. Tre settimane di potassio-magnesio servito a un cazzo. Sarà così fino alla fine: tre minuti di corsa e due di camminata per cercare di far passare i crampi, Iddio li strafulmini, che riappaiono con precisione scientifica ogni qual volta riesco a corricchiare per mezzo chilometro di fila. Ogni tanto mi fermo a fare stretching sulle transenne. “Robodou, don’t give up, five miles more!” mi fa una vecchietta amorevole. Cinque miglia. E come le faccio?

Fossi stato a Milano, dove agli incroci ti insultano, dove se ti va bene corri da solo e nell’indifferenza generale,. mi sarei infilato in metropolitana direzione casa (ammesso di riuscire a fare le scale con quei crampi). Ma qui avevo due ali di folla attorno, due ali amorevoli, “Robodou! Let’s go”, e come avrei potuto lasciar perdere? Davo il cinque anche passeggiando, fino a Central Park, dove ho ripreso un po’ di forza e mi sono imposto di finire almeno sotto le quattro ore e mezza, mezz’ora in pù del tempo che mi sarebbe piaciuto fare ma che il mio corpo mi ha impedito:

“Robodou, occhei, goditi questo momento. La prossima volta allenati meglio, pirlone”.

Ok, corpo, ho imparato la lezione. Taglio il traguardo senza entusiasmo esterno ma con una certa emozione dentro. Non è stata la maratona che volevo, sportivamente parlando. Ma umanamente è stata meravigliosa. Questo è podismo globale, ragazzi, questa è l’essenza dello sport. C’era gioia, partecipazione, C’era una festa e il protagonista ero io, con gli altri quarantamila arrivati da ogni dove. Un’americanina mi mette la medaglia: “Nice job, Robodou”. Beh, oddio, proprio nice magari no. Ma tutta ‘sta roba mi rimarrà nel cuore. Sono un finisher. C’è il mio nome sul New York Times. Mi fanno le congratulazioni al bar e sull’ascensore. Nella capitale del mondo, dove si sta per votare il nuovo presidente, la vera gloria è per tutti i Robodou che sono arrivati in fondo.

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LA MIA MARATONAultima modifica: 2008-11-03T23:06:00+01:00da admin
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