5/5/2002 – 5/5/2012

DIECI ANNI

Quando debbo fare un esempio calzante sulla stranezza della vita, più di una volta mi è toccato citare il 5 maggio. E non tanto il nostro 5 maggio – che comunque, in quanto catastrofe, è un generale e prezioso insegnamento di vita – quanto il mio 5 maggio. Perché il 5 maggio 2002 per me ha una sfumatura precisa e sfacciatamente diversa da quella di gran parte degli interisti: non è un giorno da dimenticare, ma un giorno indimenticabile. Quando si entra in argomento, intimamente mi tocca fare un veloce punto della situazione e settare il cervello: ne parliamo in quanto Lazio-Inter 4-2 bla bla Ronaldo che piange bla bla scudetto a puttane eccetera eccetera, oppure ne parliamo come di una sliding door in cui io sono entrato senza nemmeno accorgermene? No, perché è chiaro che senza il 5 maggio io non esisterei. Io in quanto Settore, ovvio. Perché io in quanto Roberto ci sarei ancora, per carità, ma sarei un pochino più normale. Avrei fatto meno cose, visto meno gente, stretto meno mani, bevuto meno birre, vissuto meno emozioni. Ci penso sempre con incredulità. Cosa può provocare una partita, roba da matti. Più che stranezza, è una follia. Ma ogni volta mi piace raccontarla. O raccontarmela come adesso, alla tre di notte, al pc. Il quadretto con la foto e il biglietto è sempre lì, benedetto il giorno in cui l’ho appeso. Lo stacco per fargli una foto. C’è un’ombra nel muro, vuol dire che un po’ di tempo è passato. Dieci anni, già. Ma non è una storia del passato, è una storia ancora in corso. Una follia, sì.

Eppure è andata così. Mi ero riavvicinato all’Inter. Fisicamente, intendo. Tornato allo stadio dopo qualche anno di solo divano. Ronaldo ricostruito, l’Hombre vertical, Vieri, lo scudetto che sembrava lì a un passo, che prendeva forma, che era cosa fatta, quasi fatta, vabbe’, mancava poco. Gigi, che oggi folleggia a Telelombardia ma che allora come me era più normale, un interista vero e stop,  stamattina mi ha convocato per un caffè “che sono 10 anni, Robè, e domani non posso”, e anche 10 anni fa mi aveva telefonato per convocarmi e organizzare la trasferta “perchè non si può non andare Robè, non si può”, soprattutto se da 13 anni non vinci il Tricolor. I nostri biglietti comprati il lunedì pomeriggio – il lunedì sera erano finiti -, 88 euro più 9 di prevendita, Tribuna Montemario, Settore 4C, fila 72, posti 34 e 35. Andammo, tornammo il giorno dopo a mani vuote, vuotissime. Stravolti. La sliding door mica l’avevo vista, eppure da qualche parte ci ero entrato.

Lasciando le cose serie e importanti al loro posto, cioè qualche gradino più in su, il 5 maggio 2002 è stato forse uno dei giorni più importanti della mia vita. O se importante è comunque troppo, diciamo fortunato. Fortunato sì, fortunatissimo. Quando cerco di spiegarlo, e attacco con il resto del racconto, vedo sempre occhi strabuzzati. Giuro, è andata proprio così, è cominciata lì su quel sedile, dove ho lasciato un brandello di cuore e dove contemporaneamente è partita un’avventura bellissima. Quando ripenso a Gresko e a Poborsky mi si lacera il petto, ma dura poco. Perchè poi penso a tutto quello che mi è successo dopo. A quello – e qui finalmente torno al plurale – che ci è successo dopo.

Forse l’affetto perverso che mi lega al 5 maggio edulcora un po’ il ragionamento, ma credo che da quel giorno sia stato tutto più bello. Un capitolo di sofferenza durato ancora tre anni (fino alla Coppetta che ruppe l’incantesimo) e che ci ha legati ai nostri colori come solo certe traversie possono fare. Perchè vincere è bello, e allora essere interisti è fantastico bellissimissimo e anche facile – vero, papà di Filippo? -. Ma quando perdi, e tutti ridono, e tu perdi di più, e sbagli, e insisti, e perseveri, e sprofondi, e non vedi la luce, allora ci devi mettere del tuo per resistere. E se ci metti del tuo – e se resisti -, poi è più bello, non ci sono cazzi.

Dieci anni di merda mangiata e di giocatori mediocri, di semifinali di Champions in cui non perdi ma esci, di esoneri, sconfitte, figuracce, acquisti da tregenda. Ma dieci anni anche di Moratti e di Facchetti, di Mancio e di Mou, di Zanetti e di Adriano, di Ibra e di Milito, di Eto’ e di Recoba, di rivincite morali e materiali. Di vittorie vissute allo stadio, al lavoro e sul divano, di dopopartita davanti al computer o sulle panche del Boccio, a scrivere o parlare per ore di Inter – ah, se il mondo fosse davvero questo: l’Inter come unico grande problema -, a contare i trofei, a cucire coccarde. Sono partito da Gresko e da Poborsky, ma ero anche a Madrid sulla direttrice esatta del tiro di Milito, il gol della sicurezza, l’urlo più disumano che abbia mai cacciato all’interno dell’urlo da stadio più clamoroso che abbia mai sentito. Senza il 5 maggio sarei rimasto un tifosotto normale, grazie al 5 maggio (figuriamoci, l’avrei vista su Sky) ero a Madrid  nel momento esatto in cui si faceva la Storia e tutta la sofferenza di una vita nerazzurra si ricomponeva in una magica serata. Grazie al 5 maggio, dieci anni dopo quel 5 maggio, sono qui con voi a ringraziare – in conclusione –  di essere interista.

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5/5/2002 – 5/5/2012ultima modifica: 2012-05-05T02:34:00+02:00da admin
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